Il Presidente dell'Eurogruppo non brilla certo per simpatia. Tuttavia la polemica scoppiata per la sua intervista al giornale tedesco FAZ mi sembra ancora una volta una storia costruita. Dijsselbloem non ha detto, così come hanno riassunto i giornali italiani, che i paesi mediterranei spendono i soldi in donne e alcol. Ha detto che la solidarietà è importante, ma che non si possono spendere i soldi in donne ed alcol e poi chiedere aiuto. Fuori metafora (perchè ovviamente questo era il riferimento alle donne e all'alcol, una metafora) dice che la solidarietà è importante, ma che i soldi vanno poi spesi in investimenti per la crescita e non in sprechi e bonus di pochi spiccioli che non danno benefici a nessuno e che, però, distraggono denaro da spese utili e lo investono in spese inutili o utili solo per avere un pugno in più di voti alle elezioni nazionali.
Brexit: hanno vinto i vecchi sui giovani; hanno vinto le paure sulle speranze; ha vinto la politica irrazionale della pancia su quella razionale del cervello.
Mi dispiace in primo luogo per i ragazzi inglesi che hanno tentato di contrastare questa scelta folle di vecchie generazioni ancorate ad un mondo che non c’è più. Poi mi dispiace per gli scozzesi e per gli irlandesi che, più di altri, hanno vissuto le crisi economiche e che hanno sempre percepito l’Unione come risorsa più che come vincolo. Le conseguenze di questa scelta saranno molteplici e non tutte prevedibili dato che si tratta di una “prima volta”. Le conseguenze prevedibili ed immediate sono già sotto gli occhi di tutti: crollo della finanza britannica, crollo del valore della sterlina, declassamento del Regno Unito da parte delle agenzie di rating. Insomma, la Gran Bretagna perde buona parte della sua reputazione di paese affidabile e stabile. Le conseguenze del medio periodo potranno essere un aumento della disoccupazione, un ulteriore isolamento dell’Inghilterra che diventerà irrilevante ella politica europea, e una frantumazione sociale e geografica di questo paese. In questo contesto in pericolo non è (solo) l’Unione Europea, ma (soprattutto) il Regno Unito che rischia una recessione economica ed un isolamento che la riporterebbe indietro in un tempo che non c’è più. Certo, anche per l’Unione questo è un momento di grande crisi. I movimenti e i sentimenti antieuropei sono presenti a macchia di leopardo in tutta Europa e questo referendum, almeno nel breve periodo, fornisce alimentazione alle retoriche antieuropee. L’Unione non può fare finta di nulla, ma deve riprendere a progettare la gestione delle politiche comuni in forma differente e con contenuti differenti incrementando le politiche sociali e rivedendo parte delle politiche economiche. L’Unione deve anche gestire questa Brexit con chiarezza e trasparenza, evitando che questo voto possa essere utilizzato dal governo inglese come strumento per ottenere accordi preferenziali di uscita che lascerebbero immutati i vantaggi dello “stay in” anche in condizioni di non membro. Questo potrebbe avviare un effetto domino. Non possono fare finta di nulla neanche i politici nazionali, che hanno spesso motivato scelte politiche impopolari ma necessarie con il refrain del “ce lo chiede l’Europa” e nascosto, invece, tutti I benefici economici e sociali derivanti dall’appartenenza all’Unione, presentandoli come propri successi. Gli Inglesi, per esempio, non sanno o hanno dimenticato che gran parte dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici nel loro paese sono derivati a partire da sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione che si sono appellate ad articoli dei trattati. E questo è solo un esempio. Ora cosa fare? Ora bisogna tornare alla politica razionale e dei progetti abbandonando le leadership che parlano alla “pancia” della gente e alimentano irrazionali tendenze e conflitti violenti. E poi, God saves the Queen “Con il passare dei giorni, in modo all’inizio quasi impercettibile, cominciò a notarsi che la parola bianco, come qualcosa che fosse divenuto osceno o malsonante, stave cessando di essere usata” Così scrive Saramago nel suo “Saggio sulla Lucidità” immaginando una storia nella quale la scheda bianca e il rifiuto di massa del voto politico siano un potente mezzo di protesta popolare contro il governo. La vicenda del referendum abrogativo sulla legge che regola la durata delle concessioni per la trivellazione dei fondali marini potrebbe rappresentare una speculare vicenda: l’esercizio del diritto/dovere di voto come atto di protesta contro un governo che invita a disertare il voto. Se la fanta politica di Saramago immagina la scheda bianca quale arma rivoluzionaria, la politica di Renzi individua nell’astensionismo l’arma di governo. E allora oscena o malsonante potrebbe diventare la parola “votare”?
Il tema delle primarie per selezionare i leaders dell’Unione Europea è senza dubbio un’ottima idea. Renzi, però, sbaglia a chiederle per la scelta del Presidente della Commissione. Dovrebbe suggerire di fare le primarie per la scelta del Presidente del Consiglio Europeo.
Il Presdente della Commissione Europea non è il “capo dell’esecutivo” della UE, ruolo che invece è del Presidente del Consiglio Europeo, attualmente l’ex primier polacco Donald Tusk. Il Trattato di Lisbona ha rinforzato i legami tra Parlamento Europeo e Commissione a tal punto che, per la prima volta nella storia dell’Unione, i partiti europei hanno nominato i rispettivi candidati alla Presidenza della Commissione già durante la campagna elettorale del 2014 e, ancora per la prima volta, questi candidati hanno presentato i manifesti e le offerte elettorali dei rispettivi partiti in un dibattito pubblico. Nonostante ciò la Commissione Europea non è l’esecutivo dell’Unione. Anche se il Trattato di Lisbona obbliga il Consiglio Europeo a tenere conto dei risultati delle elezioni europee nella scelta del Presidente della Commissione, quest’ultimo non ha i poteri istituzionali per garantire l’implementazione del programma di governo del partito o della coalizione dei partiti, che lo ha sostenuto. Il potere esecutivo, inteso come potere di governo, non appartiene alla Commissione, ma appare piuttosto suddiviso tra il Consiglio Europeo che fissa le strategie di lungo termine e i programmi di governo dell’Unione e, per alcuni ambiti estremamente rilevanti, il Consiglio dell’Unione che, ad esempio per le politiche economiche e monetarie è ancora il principale attore decisionale. Politicizzare la figura del Presidente della Commissione è un errore che non servirebbe a rendere l’Unione più democratica, perché la Commissione non ha nè il potere di approvare le leggi nè il potere di fissure l’agenda politica dell’Unione. Aumentare la legittimazione politica del suo Presidente rischia solo di aumentare le crisi interistituzionali nel caso di conflitti tra Commissione e Consiglio Europeo. Questo errore è stato già fatto dal Trattato di Lisbona. Se si vuole realmente rendere responsabile il sistema politico dell’Unione davanti agli elettori, allora è sulla figura del Presidente del suo esecutivo che si deve agire. Qualcuno più esperto di me in politica (quella con la p minuscola) mi dovrebbe spiegare perché Matteo Renzi sta dilapidando quel piccolo tesoretto di reputazione che era riuscito a riconquistare all’inizio del suo mandato. Nell’ambito del sistema politico dell’Unione, l’Italia, sino agli anni ’80, aveva goduto di risorse reputazionali e, quindi, di influenza negoziale, che le derivavano dal suo status di paese fondatore e tradizionalmente europeista. Paese politicamente instabile, con una politica estera poco definita e con una struttura economica debole, compensava in parte così le sue pecche strutturali. Poi la seconda Repubblica aveva azzerato tutto ciò. Solo con l’avvio del mandato di Renzi l’Italia ha smesso di essere considerata il nuovo “buffone” dell’Unione. Ed ora? Cosa è successo? Perché avviare queste liti da condominio? Perché mettere in scena questi teatrini dell’ego? Qui prodest? Il Presidente del Consiglio sa bene come funziona l’Unione e , certo, è cosciente che gli slogan che lancia sono, nella migliore delle ipotesi, becero populismo. E allora? Qualcuno me lo sa spiegare?
Questa è una guerra di quelle che si definiscono nuove. Nuova perché, a differenza delle guerre tradizionali, questa si combatte innanzitutto contro i civili e con attentati terroristici piuttosto che (o oltre che) con azioni di combattimento contro altri soldati; perché il teatro della guerra non è definito e delimitato, ma allargato a dismisura; perché l’obiettivo della guerra non è chiaro e non si conoscono le finalità per le quali è combattuta. E’ nuova, soprattutto, perché non riusciamo ad identificare il “nemico”. Il nemico non è un altro stato, non sono soldati in divisa e, spesso, si “confonde” tra noi. Ecco perché (quasi) tutti noi cerchiamo di capire questa guerra interpretandola con concetti tradizionali e a noi familiari. La definiamo una guerra di religione, uno scontro tra civiltà. Identifichiamo il nemico negli Islamici o negli individui di religione Mussulmana. La combattiamo con la chiusura in “noi stessi” per proteggerci dalle aggressioni che sembrano arrivare dall’esterno. E così sbagliamo e continuiamo a non capire la nuova natura di questa guerra perché per potere comprendere quest'ultima è necessaria una nuova strumentazione culturale. Questa guerra non si vince contro un nemico, ma si vince contro il nostro modo tradizionale di intendere la società. La violenza va combattuta e va duramente punita. La riconfigurazione delle alleanze internazionali in funzione antiterroristica e le azioni militari in alcuni teatri possono essere utili nel breve periodo. Ma questo è solo un passo tattico. La strategia richiede altre cose: una nuova considerazione della pluralità sociale che va coltivata e non combattuta, una nuova configurazione delle frontiere che vanno ri-concettualizzate ed aperte piuttosto che chiuse. Richiede azioni di educazione all’accoglienza e alla percezione della diversità come valore, alla “religione” della convivenza tra umani. Forse così potremo far prevalere il rispetto della vita sulla barbarie della morte.
Il duro scontro di stanotte tra Junker e Tusk sul tema della gestione dei migranti è il primo atto di un più complesso conflitto istituzionale tanto prevedibile quanto inevitabile. E la questione non riguarda solo (e tanto) il tema sul tavolo delle trattative, ma l’impianto istituzionale del sistema politico dell’Unione che il Trattato di Lisbona ha messo in piedi: un’ Unione Europea con un esecutivo bicefalo e con i due Presidenti di questo esecutivo entrambi legittimati politicamente. Il Presidente della Commissione “eletto dal Parlamento Europeo” come sancisce l’articolo 14 del Trattato ha ormai una legittimità politica, e non solo tecnica, che gli proviene dalla maggioranza parlamentare. Questa legittimità è rafforzata dalla lettera dell’articolo 17 che stabilisce che l’elezione del Presidente della Commissione da parte del Parlamento sia fatta su proposta del Consiglio europeo il quale, nel designare il candidato, deve tenere in conto i risultati delle elezioni del Parlamento europeo. E, del resto, la individuazione dei candidati fatta dalle principali famiglie partitiche europee durante l’ultima campagna elettorale europea si inserisce in tale prospettiva. La stessa designazione di Junker da parte del Consiglio Europeo, è stato un atto non solo dovuto, ma anche chiesto a gran voce persino dal Partito Socialista Europeo, in un momento in cui i Capi di Stato e di Governo sembrarono reclamare la loro indipendenza nella designazione di questa figura istituzionale.
Del resto, il Presidente del Consiglio Europeo non ha certo una minore legittimità politica. Eletto a maggioranza qualificata dallo stesso Consiglio Europeo per una durata di almeno due anni e mezzo, rappresenta la maggioranza politica degli esecutivi degli stati membri. I Trattato di Lisbona ha fornito all’esecutivo bicefalo dell’Unione, che è sempre esistito, una legittimità bicefala. Al Presidente della Commissione ha fornito una legittimità di stampo parlamentare, sulla scia dell’istituto della fiducia politica, e basata sul legame tra elettori, Parlamento ed esecutivo. Al Presidente del Consiglio Europeo, ha fornito una legittimità degli esecutivi degli Stati Membri. Non è certo un impianto che facilita le scelte politiche. L’inefficace e bizantino compromesso sulla ripartizione dei migranti raggiunto stanotte ne è un chiaro esempio. |
AutoreFrancesca Longo Archives
Marzo 2017
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