Questa è una guerra di quelle che si definiscono nuove. Nuova perché, a differenza delle guerre tradizionali, questa si combatte innanzitutto contro i civili e con attentati terroristici piuttosto che (o oltre che) con azioni di combattimento contro altri soldati; perché il teatro della guerra non è definito e delimitato, ma allargato a dismisura; perché l’obiettivo della guerra non è chiaro e non si conoscono le finalità per le quali è combattuta. E’ nuova, soprattutto, perché non riusciamo ad identificare il “nemico”. Il nemico non è un altro stato, non sono soldati in divisa e, spesso, si “confonde” tra noi. Ecco perché (quasi) tutti noi cerchiamo di capire questa guerra interpretandola con concetti tradizionali e a noi familiari. La definiamo una guerra di religione, uno scontro tra civiltà. Identifichiamo il nemico negli Islamici o negli individui di religione Mussulmana. La combattiamo con la chiusura in “noi stessi” per proteggerci dalle aggressioni che sembrano arrivare dall’esterno. E così sbagliamo e continuiamo a non capire la nuova natura di questa guerra perché per potere comprendere quest'ultima è necessaria una nuova strumentazione culturale. Questa guerra non si vince contro un nemico, ma si vince contro il nostro modo tradizionale di intendere la società. La violenza va combattuta e va duramente punita. La riconfigurazione delle alleanze internazionali in funzione antiterroristica e le azioni militari in alcuni teatri possono essere utili nel breve periodo. Ma questo è solo un passo tattico. La strategia richiede altre cose: una nuova considerazione della pluralità sociale che va coltivata e non combattuta, una nuova configurazione delle frontiere che vanno ri-concettualizzate ed aperte piuttosto che chiuse. Richiede azioni di educazione all’accoglienza e alla percezione della diversità come valore, alla “religione” della convivenza tra umani. Forse così potremo far prevalere il rispetto della vita sulla barbarie della morte.
|
AutoreFrancesca Longo Archives
Marzo 2017
Categorie |